giovedì 18 ottobre 2007

Del potere


Alle rane si chiede, le rane rispondono. Parliamo un po’ di potere.

Questa è una delle parole più abusate della nostra epoca: scagliarsi contro i Potenti diventa spesso lo sport preferito di milioni di persone. Alle volte può essere la mossa vincente della tua vita, quella di iniziare a scagliarti contro il Potere, e imbastire una lotta personale, che poi personale non lo è mai, contro i Giganti che traviano il buon popolo. Da un giorno all'altro da grigia nullità che eri ti trasformi all'improvviso in un Redentore.

È chiaro. I Potenti detengono il monopolio di ciò che hanno attorno. I Potenti si scambiano favori. I Potenti curano soltanto i propri interessi, e del prossimo chi se ne impiffera. Al di fuori della cerchia dei Potenti, invece, son tutti delle Carmelitane Scalze.
Una volta Saul Bellow, intervistato da Oriana Fallaci, si sentì rimproverare il fatto che «gli Americani pensano soltanto ai soldi». Lo scrittore cadde dalle nuvole: «Perché, voi europei no?».

In realtà è il più comodo degli alibi, quello di addossare le colpe di ciò che vediamo attorno esclusivamente a chi ricopre cariche più in vista, o meglio di attribuire il male soltanto a chi ha i mezzi per compierlo, e non anche a chi non lo compie unicamente in quanto impossibilitato. «Potere» è una parola che andrebbe scritta con la p minuscola, in quanto non esclusiva di chi siede sulle poltrone ministeriali, quanto forse il più diffuso squallore umano. Tutti esercitano un potere, tutti bramano a detenerlo, e godono quando l'ottengono. L'unica differenza tra il Presidente degli Stati Uniti e l'ortolano della piazza centrale è che il primo ha fatto un po' più di carriera e comanda più gente, ma intanto anche quello gongola appena può sentirsi al di sopra di qualcuno. Ricordo ancora una discussione tra vecchietti alle poste. Blateravano i soliti discorsi sui politici che sono tutti ladri, è tutto un magna-magna, e bisognerebbe mandarli tutti in galera eccetera, insomma una specie di versione da terza età dei testi dei 99 Posse, quando una vecchietta li interruppe con fastidio: «E andiamo! ché noi non facevamo la stessa cosa, se stavamo al posto loro? Non prendiamoci in giro! Siamo tutti uguali!». Sono rimasto davvero in ammirazione di tanta saggezza.

Tant’è vero che, dal momento che spesso anche quelli che lottano contro il potere sono potenti a loro volta, è stata coniata una nuova espressione per sancire le distanze: i poteri forti. Come dire: al di fuori dei poteri forti ci sono soltanto poteri deboli, non ancora realizzati: uno scontro insomma tra chi ha fatto carriera e chi è all’inizio della scala. È per questo che mi indispettisco davanti a certe gigantesche manifestazioni pubbliche, col contorno di retorica e urla. Il punto è che chi macina slogan dall’alto di una tribuna generalmente non combatte il potere: lo reclama per sé.

Il nocciolo del problema è morale, onnicomprensivo, non contingente. Dici: i politici sono ladri, sperperano il denaro pubblico, raccomandano gli amici, truccano gli appalti. Bene, benissimo. Ma non sono scesi dalla luna a colonizzare il nostro paese: sono figli della nostra società. Siamo noi che li abbiamo educati così. Con che faccia possiamo condannare la corruzione, se ciascuno di noi non esiterebbe un secondo a chiedere una raccomandazione per il proprio figlio?

I miei genitori erano insegnanti di scuola. Bene, non passava Natale o Pasqua senza che arrivassero a casa cesti pieni di ogni ben di Dio da parte dei genitori degli alunni più in difficoltà. Quando ho fatto la maturità (e allora c’era la commissione esterna) una persona informata dei fatti ci fece sapere che eravamo stata l’unica famiglia della classe a non contattare gli esaminatori per spingere il figlio. Non parliamo poi di quel periodo in cui mio padre è stato commissario in un concorso ministeriale. Ci sarebbe stato da staccare il telefono, per quanto eravamo subissati di chiamate. Ridevamo, a fare il conto dei tanti insospettabili, fino ad allora da noi ritenuti i più integerrimi, che lo contattavano per chiedere un occhio di riguardo verso il proprio figlio, nipote, cugino di amici. E ricevevamo un continuo di cesti di cibo, fiori per la signora e via così.
Quando è questa l’educazione che si riceve, cosa possiamo sperare?

Parlavo tempo fa con un anziano professore in pensione. Da giovane era stato un membro molto promettente della Democrazia Cristiana, salvo abbandonare la politica pieno di disgusto per ciò che vedeva attorno (e negli anni ’50, mica nel ’92). Mi raccontava del periodo in cui aveva ricoperto non so quale incarico di responsabilità a livello regionale: era rimasto colpito da come le persone avessero mutato atteggiamento nei suoi confronti. Da un giorno all’altro era soggetto a una tale mole di adulazione, riverenza e - diciamola tutta - piaggeria da sentirsi a disagio.

E sarebbe questa la cosiddetta società civile? Che poi ogni tanto, frustrata dall’inutilità dei propri sforzi carrieristici, trova il capro espiatorio in quelli che invece ce l’hanno fatta, e scende in piazza a mulinare insulti contro i propri simili più fortunati. Quelli che hanno avuto la sorte - loro negata - di avere un amico o un parente in alto loco.

E scusate lo sfogo, che so essere impopolare. In democrazia è permesso attaccare chiunque, tranne il Popolo. Aristofane finché sbertucciava i governanti andava bene, ma quella volta che osò criticare la Città nella sua interezza fu portato in tribunale.

D’altra parte, le adunate pubbliche hanno ben altro significato antropologico. Ma di questo parleremo in un’altra rana.

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