lunedì 18 febbraio 2008

L'isola de li Mortacci


Oggi parliamo di uno scrittore formidabile: Valerio Massimo Manfredi.
Sì, l’archeologo. Sì, il conduttore televisivo. Sì, il brizzolato dallo sguardo ammaliante.

Sarei ben felice di recensirvi la sua ultima fatica. La verità è che non ho una lira.
Ma ho un coinquilino generoso, il quale tempo fa, vedendomi in crisi d’astinenza da lettura, mi ha gentilmente messo a disposizione i suoi libri. E a caval donato non si guarda in bocca, specie se stai a rota: Michael Crichton (quello dei lucertoloni giganti), Valerio Evangelisti (uno che è più realistico il medioevo Playmobil), Dan Brown e, appunto, Manfredi.

Ora, a me Manfredi Nino non ha mai fatto ridere particolarmente.
Manfredi Valerio, invece, è uno spasso. Credetemi.

Si trattava de “L’Isola dei Morti”. Un romanzo stupefacente. Intendo dire, è stupefacente come qualcosa del genere sia potuto venir fuori dalla tastiera di un computer, essere girato in lettura a un redattore, passare due giri di bozze e ricevere il “visto si stampi” senza che nessuno abbia sollevato la benché minima obiezione.

Siamo nel terreno del thriller archeologico (il Codice Da Vinci, per capirci), anche se Manfredi vi si cimenta già da diversi anni. Thriller archeologico vuol dire una storia in cui alcuni studiosi, anziché essere dei barbosi che passano la vita a indagare questioni che non interessano nessuno, si trovano invischiati in qualche scoperta formidabile che potrebbe far riscrivere i libri di storia. Naturalmente devono fare i conti con qualche cattivo che non vuole che la verità venga a galla, o la vuole tutta per sé, o la vuole sfruttare per il proprio potere personale o che so io.

Trama: nella laguna di Venezia viene alla luce il relitto di una nave del XIV secolo, avvolta dal fango e dal mistero. A finanziare lo scavo sono dei misteriosi inglesi, che misteriosamente trafugano una misteriosa pergamena. Gli archeologi, incuriositi dalle misteriose circostanze, si improvvisano detective e cercano di venire a capo del mistero. Ne verranno fuori una serie di misteriose scoperte.
(Tra l’altro uno di questi inglesi si chiama Liddel-Scott, come il vocabolario di greco antico, e questa è forse l’unica trovata geniale. Sarebbe bello un romanzo in cui tutti i personaggi si chiamano come vocabolari: Castiglioni Mariotti, Zingarelli, Calonghi, Rocci, Ragazzini etc.)

Ciò che contraddistingue maggiormente il romanzo non è però il mistero, ma la fretta. Sembra che l’autore l’abbia scritto in preda a un attacco di dissenteria, e non lo diciamo per ingiuriarne i risultati, ma per sottolineare che aveva una tremenda voglia di finire al più presto. Il volume è esilissimo, neanche cento pagine. Per condensare una storia del genere in così angusto spazio, non c’era altra scelta che tagliare via molti passaggi narrativi che solitamente sono indispensabili.
Diceva Chechov che a teatro, se un personaggio compra una pistola nel primo atto, nel secondo deve sparare. Manfredi ha mandato in pensione questo vecchiume: perché farlo, quando il personaggio può estrarre la pistola dal nulla?
Qui tutto è improvviso, improbabile: c’è bisogno che gli archeologi spiino gli inglesi? Improvvisamente si scopre che uno di loro si diletta a tal punto di elettronica da essere in grado di costruire un sofisticato microfono direzionale a forma di bottone. La registrazione effettuata è in dialetto veneziano del ‘300? Casualmente il protagonista conosce uno studioso in grado di capire perfettamente quella lingua. Nessuno comprende a cosa alluda quel testo? Bene, il protagonista sfodera in quattro e quattr’otto una teoria assurda e senza fondamento.

Risoluzione che noi - bastardi dentro - adesso vi sveleremo, così vi togliamo il gusto di leggere ‘sta cazzata. Bene, gli elementi che gli archeologi hanno a disposizione sono:
- la nave è stata affondata apposta
- il capitano ha scritto una breve memoria in cui afferma di avervi nascosto qualcosa di prezioso
- in tale memoria è citato vagamente un passo dantesco.
Su due piedi il protagonista ne deduce quanto segue: il carico misterioso è il manoscritto autografo della Divina Commedia, che è stato trafugato e tenuto nascosto, probabilmente perché era differente dalla versione che leggiamo oggi e poteva contenere anche alcuni elementi iniziatici, magari legati ai Templari e all’eresia gnostica. Potrei sbagliarmi, ma io ci avrei aggiunto anche un intervento alieno.
Non so, ditemi voi. Se trovo una pigna per terra, mi sento autorizzato a ipotizzare che sia stata depositata da un nano albino di nome Frillicchiu, o non dovrei magari considerare anche altre ipotesi più plausibili? Ma non è così che ci si muove nel magico mondo dei thriller archeologici.

Che devo dirvi. Mi tocca fare una palinodia: al confronto, Dan Brown merita il premio nobel.

In ogni caso ultimamente il Nostro più che ai thriller archeologici si dedica a romanzi storico-avventurosi. Prende cioè gli eventi della storia greco-romana e ne trae delle puntate di Walker Texas Ranger.

Vabbé - direte voi - ma non è la stessa cosa che faceva Dumas?
E Dumas mi bacia il culo, dico io.
Ho sempre odiato quel fessacchiotto di D’Artagnan…

p.s. sì sono snob
pp.ss. chi se ne frega, butto via quella stronzata e mi rimetto a leggere Céline
ppp.sss. non è vero, ho subito attaccato a leggere un altro romanzo di Manfredi. Sono troppo divertenti queste sceneggiature di film mancate. Sento che sto diventando dipendente dai suoi libri: vi farò sapere...

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