sabato 27 settembre 2008

Fenomenologia di José Mourinho


Mourinho non è soltanto il nuovo allenatore dell’Inter: è la cartina al tornasole di un intero popolo. Attraverso di lui possiamo comprendere tante cose sul carattere degli italiani.

Per esempio l’esterofilia. L’italiano è stato abituato per secoli a essere lo sventurato abitante di una terra lunga e stretta per cui scorrazzavano gli eserciti di mezzo mondo. Cinesi a parte, credo che tutti ci abbiano invaso prima o poi (ma recentemente si sta colmando anche questa lacuna).
Il contadino italico viveva dunque una vita che sapeva periodicamente soggetta all’arrivo improvviso e immotivato di soldati con altri abiti e altre lingue che avrebbero distrutto tutto quello che trovavano sul loro cammino. Cosa poteva fare, in quei casi? Barricarsi in casa, mettere il chiavistello e sperare che arrivasse presto un altro esercito straniero a liberarlo dal precedente. Si capirà, in queste condizioni è ovvio che l’italiano abbia maturato una visione dello straniero come un qualcosa di magico e provvidenziale: arrivano non i nostri, ma i loro.
D’altra parte Garibaldi ha fatto l’Italia con uno stato maggiore dai nomi Eber, Turr, Rustow e persino la capo infermiera si chiamava White. I Borbonici, per non essere da meno, hanno commissionato la strategia a un generale francese.

E così per il calcio. In Italia gli allenatori si dividono sostanzialmente in due categorie. Da una parte ci sono gli autoctoni: generaloni tutti d’un pezzo per strane ragioni strappati alla zappa, a disagio nella giacca e cravatta e le cui mani ti immagini profumare d’aglio; di quelli come Nereo Rocco, la cui filosofia è “colpisci tutto quello che si muove sull’erbetta, se è il pallone tanto meglio”. Poca tattica, tanto cuore e fiato. Strategia: 2-3 campioni in squadra e per il resto “sette asini che corrono”. Insomma, gli allenatori pane e salame, con una felice definizione coniata a suo tempo per Cesare Maldini.

E poi ci sono i Profeti.
Già il fatto che l’allenatore straniero venga di solito designato con un termine biblico la dice lunga. Generalmente il profeta proviene da un campionato straniero di quelli in cui gli avversari non schierano la difesa, e ha vinto sette campionati di fila giocando con il 2-3-5. Viene ingaggiato a peso d’oro da uno di quei presidenti a cui piace tanto buttare i soldi dalla finestra (niente nomi). Scende dall’aereo e nella prima conferenza stampa annuncia che giocherà con una tattica suicida e promette vittoria certa.
Il tifoso italiano già davanti a questo spettacolo si scioglie di ammirazione. Del profeta ammira il coraggio: uno, perché non gioca col catenaccio, due, perché non è scaramantico come gli allenatori pane e salame, i quali anche alla penultima giornata con 18 punti di vantaggio dicono che la palla è rotonda e le partite durano 90 minuti. In più c’è l’accento: l’italiano medio, messo di fronte a uno straniero che cerca goffamente di parlare la nostra lingua, per motivi imponderabili si intenerisce. Accade con le veline, accade anche con gli allenatori.

Va da sé che poi il successo del Profeta è sempre un rebus. Può essere un vincente come Helenio Herrera, e allora ricevere soprannomi magniloquenti con Il Mago; oppure rivelarsi un mezzo psicopatico come il quasi omonimo Heriberto Herrera, che faceva allenare i giocatori con le incudini ai piedi per abituarli alla fatica...

E tutto questo sta capitando a José Mourinho in questi giorni. Ci vorrebbe uno studio di sociologia per spiegare il comportamento dei giornalisti italiani, che nei suoi confronti si comportano come i genitori con il figlio di sei mesi: qualunque cosa faccia, anche la più banale, viene vista come un prodigio. “Guarda, ha sorriso!
Da che arrivato in Italia, non c’è giorno che la stampa non produca dei reportagi sensazionalistici con notizie strabilianti come: “Mourinho fa allenare i giocatori con la palla”; “Mourinho schiera tre punte”; “Mourinho usa le lavagnette”; “Mourinho porta la cravatta”; “Oggi Mourinho ha fatto colazione”.

La novità, semmai, è che questa volta stanno cominciando a spazientirsi i colleghi nostrani. Invidia? Può darsi. Se uno e uno solo è lo Special One (perché questa sarebbe la traduzione più esatta: l’unico davvero speciale), tutti gli altri che fine fanno? Avessero mai dedicato tante attenzioni ad allenatori italiani che hanno in bacheca il doppio dei suoi trofei. E siccome il nostro non è esattamente un mostro di diplomazia, fioccano le frecciate, i litigi a distanza, addirittura le quasi denunce. E’ riuscito a scazzottarsi con quel (finto?) mostro di fair play di Ranieri; ha suscitato le dichiarazioni sarcastiche sul suo conto dell’Orsone Ancelotti; ha indispettito Zenga; e c’è quel famoso dirigente del Catania che ha dichiarato che vorrebbe tanto “bastonarlo sui denti”.

Adesso i casi sono due. O Mourinho vince il campionato infilando 45 vittorie di fila; e allora diventerà un Eroe Nazionale, l’ennesimo di importazione, con tanto di piazze intitolate e italici bimbi battezzati José.
Oppure farà la triste fine dei profeti fuori patria, costretto ad abbandonare il Belpaese tra i fischi di quelli stessi che lo incensavano. Non prima, però, di aver litigato anche con Spalletti, Delio Rossi, il presidente Napolitano e Padre Pio.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Non conosco questo Zeni. Io conosco solo Zeni de Tibet, Zeni de Gran Premio... Zeni è solo un vecchio di 70 anni che non ha mai vinto niente.

Courtial

Anonimo ha detto...

Heriberto Herrera era un appassionato di cartoni animati giapponesi.